Vengo da una famiglia di artisti. E anche io mi guadagno da vivere con la mia arte. Non è stata una scelta da ribelle. E’ come se avessi rilevato la pompa di benzina di famiglia. Anche i miei antenati avevano tutti a che fare con l’arte. Io sto semplicemente portando avanti la tipica attività di famiglia.
Ma mio padre, che era un pittore e architetto, era stato colpito così duramente nel periodo della Grande Depressione – durante il quale aveva fatto la fame – che pensava fosse meglio che io non avessi nulla a che fare con l’arte. Tentò di indirizzarmi verso tutt’altra strada perché si era reso conto che l’arte valeva ben poco come mezzo di guadagno. Mi disse che mi avrebbe mandato all’università solo se avessi studiato qualcosa di serio, qualche materia pratica.
Alla Cornell University mi diplomai in chimica perché quello era il campo in cui si era fatto strada tanto bene mio fratello. I critici pensano sempre che uno non possa essere un artista serio se ha fatto degli studi tecnici, come nel mio caso. So che in genere all’università, nelle facoltà di lettere, senza grossa cognizione di causa si insegna a guardare con orrore alle facoltà di ingegneria, di fisica, di chimica. E questa stessa paura, secondo me, si trasferisce anche nell’ambito della critica letteraria. Gran parte dei nostri critici vengono dagli studi umanistici, e guardano con sospetto chiunque si interessi di tecnologia. Insomma, come stavo dicendo, io mi sono diplomato in chimica ma finisco continuamente a insegnare nelle facoltà di lettere, e così ho avuto modo di offrire il contributo del pensiero scientifico alla letteratura. Ma non mi è stata mai dimostrata grande riconoscenza per questo.
Sono diventato un cosiddetto scrittore di fantascienza quando qualcuno ha stabilito che ero uno scrittore di fantascienza. Non ci tenevo affatto a essere etichettato in quel modo, e mi chiedevo cosa avevo fatto di male per non vedermi riconosciuto come uno scrittore serio. Alla fine ho deciso che la mia colpa era quella di parlare di tecnologia nei miei libri, mentre la stragrande maggioranza dei migliori scrittori americani di tecnologia non ne sa un bel niente. Sono stato etichettato come scrittore di fantascienza perché parlavo di Schenectady, una cittadina dello Stato di New York. Il mio primo libro, Piano meccanico, era ambientato a Schenectady. A Schenectady ci sono delle enormi fabbriche, punto e basta. Io e i miei amici eravamo ingegneri, fisici, chimici e matematici. E così, quando parlavo della General Electric e di Schenectady, ai critici che non avevano mai messo piede da quelle parti sembrava che stessi descrivendo un futuro immaginario.
Ma secondo me i romanzi che non fanno nessun riferimento alla tecnologia rappresentano la vita in maniera imperfetta, così come rappresentavano la vita in maniera imperfetta i vittoriani che eliminavano ogni riferimento al sesso.
Kurt Vonnegut
da Un uomo senza patria (minimum fax editore – trad. Martina Testa)
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